PREMESSA
Scegliamo la Turchia perché rappresenta l’Asia più a portata di mano, l’ideale approccio con la cultura islamica. C’incuriosisce per il suo ruolo di ponte tra diversi continenti, per la varietà dei suoi paesaggi, per le testimonianze delle differenti civiltà che l’hanno popolata nel corso dei secoli.
Prepariamo l’itinerario nel corso di serate lunghe e morbide, passate a sfogliare la Lonely Planet nuova di zecca, a leggere le cronache di viaggi scaricate da Internet o reperite su vecchi numeri speciali di Motociclismo. La Michelin dispiegata sul pavimento del soggiorno diventa per alcune ore il nostro universo: riferimento e fondale e necessario complemento al galoppare della nostra fantasia. Paesi sconosciuti trasformati in tratti e cerchietti e colori e campiture. Simboli che traducono e danno vita a luoghi tante volte sognati.
Tracciamo un percorso di massima, del quale fissiamo le tappe fondamentali tentando di sfruttare al meglio le tre settimane di ferie che abbiamo a disposizione. Lasceremo, comunque, ampio margine all’improvvisazione.
Per non perdere troppo tempo nell’attraversamento della Jugoslavia e della Bulgaria, decidiamo di tagliare il braccio di mare dell’Adriatico con un traghetto che collega Ancona a Patrasso. Da qui, in due-tre giorni attraverseremo la Tessaglia. All’inizio sanno strade di montagna, linee rosse e sottili, che descrivono infinite spire sullo sfondo verde-marrone. Poi raggiungeremo di nuovo il mare, sul versante orientale della Grecia. Da qui fino a Istanbul le linee rosse si distendono in curve più ampie e morbide, che assecondano da vicino l’andamento della costa. Istanbul è una chiazza grigia di proporzioni enormi. Confrontiamo la sua grandezza con quella di Roma per renderci conto delle sue dimensioni da autentica megalopoli. A Istanbul ci fermeremo alcuni giorni. Desideriamo visitare, oltre alle mete turistiche d’obbligo, anche i quartieri marginali, dove immaginiamo che sia possibile cogliere gli aspetti più autentici della vita dei suoi abitanti, gli scorci meno consueti, le contraddizioni e la complessità di questa città a cavallo tra Europa e Asia. Solo quando ci sembrerà di averne assorbito almeno in parte i colori e gli odori e le vibrazioni, ci lanceremo verso la Cappadocia, in una lunga tirata di autostrada giallorossa e rettilinea. Alla vita metropolitana e caotica si sostituiranno paesaggi brulli e pietrosi, orizzonti lontanissimi e il cielo ambrato e rosso fuoco dei tramonti che abbiamo ammirato nelle fotografie che documentano i resoconti di chi c’è stato. Quindi scenderemo verso la costa sud, attraversando lande desertiche che, a giudicare dallo squarcio di nulla color beige che aprono sulla carta, devono essere sconfinate, e catene montuose impervie, di un marrone molto scuro. Risaliremo la costa turchese verso occidente, rilassandoci qualche giorno sulle spiagge bianche e sabbiose descritte nella guida. A Cesme o un po’ prima ci imbarcheremo per Atene; quindi di nuovo Patrasso, traghetto, Ancona.
In tutto percorreremo circa cinquemila chilometri, diluiti in un periodo abbastanza lungo da non ridurre il viaggio semplicemente a estenuanti trasferimenti in moto. Il bagaglio sarà molto essenziale, per poter essere contenuto nelle due motovalige, alle quali aggiungeremo un borsone cilindrico, da fissare coi ragni elastici al portapacchi posteriore. Per il pernottamento non prenotiamo nulla, per riservarci la possibilità di modificare l’itinerario con assoluta flessibilità, guidati dalla nostra curiosità e dall’ispirazione del momento. Ci avvarremo delle possibilità offerte di volta in volta dalle diverse località che toccheremo, preferendo, naturalmente, le bettole più infime, per contenere il budget e perché rappresentano la soluzione che meglio consente d’immergersi nella realtà locale.
GIORNO 1: Perugia – Ancona – (traghetto) – Patrasso (Km 180)
Il Giesse nero e lucido, riposa sul cavalletto centrale, flemmatico e inossidabile. Noi ci affanniamo negli ultimi preparativi, sudando un po’ per il caldo e per l’eccitazione. Il nostro abbigliamento è tecnico senza eccedere, abbastanza sobrio da poterci passeggiare per una città senza sentirci dei marziani; abbastanza aggressivo da sposarsi con l’immagine di motoviaggiatori duri e puri. Carla indossa il suo aderente giubbino di cuoio rosso-nero-bianco da pilota degli anni Settanta, comprato di seconda mano a Portaportese, e sembra la più navigata delle motard. Anch’io, una volta tanto, non passo inosservato: sulla mia testa risalta con sconcertante audacia il giallo canarino dei capelli. Me li sono fatti tingere ieri sera per festeggiare la partenza, in uno di quegli eccessivi slanci di entusiasmo che mi prendono ogni tanto.
Un’ora e mezza di curve e tunnel su una statale perennemente in costruzione, ci depositano sul lato opposto degli Appennini. Ancona ci accoglie tra le sue lunga braccia di città-porto. Aspettiamo l’imbarco nella fila separata dei motociclisti. Siamo un gruppo folto ed eterogeneo, composto in maggior parte da turisti diretti verso qualche isola greca. Su tutti spicca un drappello di harleisti tedeschi di mezz’età, con le immancabili tenute sadomaso di pelle nera e frange. Le loro moto sono un trionfo di cromature e lucine rosse e blu e accessori after market di gusto kitch. C’è perfino una donna-pilota sulla quarantina: giubbino di cuoio con il logo Harley Davidson stampato sulla schiena, sguardo miope dietro gli occhiali di tartaruga e faccia smunta da professoressa di educazione tecnica alle medie.
Il traghetto è enorme e moderno, sembra quasi una nave da crociera. L’interno è sgargiante e pretenzioso, disseminato di poltroncine blu elettrico imbullonate sul pavimento ricoperto di moquette rosso corallo e di finiture in ottone lucido. Passiamo in rassegna le diverse possibilità di svago disponibili a bordo: il piccolo casinò scintillante di slot machine, il duty free shop che offre a prezzo scontato maglioncini di Benetton e gioielli di Cartier. Ci sediamo al bancone di marmo luccicante del bar a bere una birra. Ci guardiamo intorno, gustandoci lo spettacolo del popolo variegato e coloratissimo che pullula intorno a noi. Spesso i nostri sguardi s’incontrano in muti commenti.
Ci attrezziamo per passare la notte all’addiaccio. Troviamo un angolo sul ponte abbastanza riparato, gonfiamo i materassini, srotoliamo i nostri minuscoli sacchi a pelo. Quasi tutti i passeggeri stanno scomparendo, inghiottiti con discrezione dai meandri delle loro cabine. Siamo tra i pochi che passeranno la notte sul ponte (forse siamo gli unici italiani: ci fanno compagnia solo alcuni greci dall’aspetto poco vacanziero: deve trattarsi di emigrati che rimpatriano per passare le ferie con le famiglia).
GIORNO2: PATRASSO – JOHANINA (KM 250)
Sbarchiamo a Patrasso sconvolti di sonno ma tenuti svegli dall’ansia di scoperta, dalla voglia di entrare nel vivo del viaggio. Dobbiamo subito imbarcarci su un altro piccolo traghetto, per attraversare lo stretto canale che separa il Peloponneso dal resto della Grecia. Ancora una mezz’oretta di beccheggi e lento procedere sulla superficie increspata di un mare scuro e opaco e siamo di nuovo in moto, finalmente autonomi, la manopola del gas tra le mani, la strada di fronte, paesaggi sconosciuti intorno a noi a perdita d’occhio. Partiamo senza fretta, lungo i dolci saliscendi di una strada secondaria, circondata da colline coperte di uliveti. E’ un paesaggio familiare, molto simile a quello dell’Umbria, tutto sommato.
GIORNO 3: JOHANINA – LARISSA – SALONICCO – ASPROVALTA (KM 500)
Ci svegliamo presto, nella sudicia bettola di Johanina dove c’ha indirizzato il proprietario di un pub dove siamo approdati ieri a mezzanotte, stanchi morti e desiderosi solo di una birra ghiacciata e di una cuccia per dormire qualche ora. Carla gli ha chiesto d’indirizzarci in un posto very very cheap e lui ha fatto del suo meglio: l’equivalente di trentamila lire per una doppia non sono molte. La compagnia dei chiassosi transessuali nella stanza accanto alla nostra era compresa nel prezzo.
Usciamo alla ricerca di un bar per fare colazione. Percorriamo quello che sembrerebbe essere il corso principale di questo strano insediamento industriale circondato dalle montagne. La passeggiata ci regala il ricordo indelebile del particolarissimo odore che la città sembra emanare dalle finestre delle case annerite dallo smog, dalla superficie rugosa del suo asfalto: un misto di nafta e soffritto di cipolla.
Poi ci aspettano alcune ore di tornanti lungo una statale stretta e dissestata e quasi deserta. Sembra di percorrere un passo appenninico. Ogni tanto superiamo qualche camion ansimante che si lascia dietro una nube scura di gas di scarico. Per decine di chilometri la strada domina sulla sinistra una vallata lunga e stretta, percorsa da un torrente impetuoso. Sul fondo valle stanno costruendo un’autostrada, destinata a ospitare lungo un tracciato più agevole e rettilineo lo scarso traffico della statale che stiamo percorrendo. La vallata è disseminata a intervalli regolari di cantieri: depositi di materiale e camion e cisterne e Caterpillar al lavoro. Tra pochi anni questo paesaggio ameno non esisterà più. Attraverso l’interfono ci scambiamo meste considerazioni su quest’ennesimo scempio.
Le Meteore cominciano a profilarsi all’orizzonte intorno all’ora di pranzo. Facciamo una deviazione per andarle a vedere da vicino. Sono uno spettacolo davvero impressionante: nere e levigate, sembrano emerse da abissi oceanici. Sovrastano la pianura circostante tacite e imponenti, lasciandosi accarezzare la schiena dai pullman dei turisti. Proviamo a immaginare come doveva presentarsi questo scenario centinaia di anni fa, senza la folla dei visitatori e i venditori di souvenir e l’invadenza delle automobili. L’idea che dei monaci, spinti dalla sete di pace, abbiano pensato di costruire la loro dimora su questi picchi è inquietante.
L’aura di misticismo emanata da queste spettacolari manifestazioni di forza della natura è davvero fortissima. Capace, senza dubbio, d’impressionare degli spiriti semplici fino a una scelta così estrema e definitiva: un biglietto di sola andata per una clausura senza mezzi termini. Fanatismo o scelta di vita ragionata?
Visitiamo l’interno di uno dei monasteri ortodossi. All’ingresso a Carla viene consegnata una pesante gonna nera, da indossare sopra i pantaloni. Entriamo in una piccola chiesa. La densità di figure, la fitta trama delle iscrizioni che riempiono le pareti ci colpisce. Ogni angolo è disegnato, sfruttato per raccontare una storia, per insegnare qualcosa. Carla ne è affascinata. A me invece questa ridondanza di particolari, lo stile sovraccarico delle decorazioni, incute lo stesso timore che provo all’interno delle chiese cattoliche. La sensazione di soffocamento, la voglia di fuggire a gambe levate.
Ripartiamo per Salonicco. La pianura della Tessaglia ci corre sotto velocemente, disseminata di chiesette con le pareti bianche e il tetto rosso, pastori bambini e alveari e vecchiette che vendono frutta sul bordo della strada.
L’approccio con Salonicco sono le sue strade sudice, l’ammassarsi disordinato di palazzi dalle facciate scrostate, balconi, antenne, smog, cartelloni pubblicitari, motorini scassati che fanno un rumore assurdo. L’effetto è quello di una periferia povera e degradata. Decidiamo di non approfondire. La Turchia è ancora lontana. Sfrutteremo le ultime ore di luce per fare qualche altra decina di chilometri e guadagnare almeno la costa.
Al tramonto avvistiamo l’Egeo. Ci fermiamo nel primo paese che incontriamo, una località balneare di lungomare e localini, atmosfera stanca di fine stagione, popolazione costituita da famigliole e persone anziane. Troviamo una stanza per dormire. Troviamo un ristorante per ingozzarci di Soublaki e Moussaka e formaggio.
GIORNO 4: ASPROVALTA – KAVALA – ALEXANDROPOLI (KM 250)
Ci svegliamo con la sensazione di aver dormito moltissimo, d’un sonno profondo e ristoratore. Usciamo dalla pensione direttamente in costume. Dobbiamo solo attraversare la strada per tuffarci in mare. Una nuotata nell’Egeo, prima di partire.
La strada costiera ci culla in morbidi curvoni da quinta piena, alimentando la nostra sensazione di benessere. Attraversiamo mari gialli di stoppie di grano appena mietuto, lambiti da laghi scuri di stoppie bruciate.
Alexandropoli è il traguardo di questa nuova tappa. C’arriviamo al tramonto. Trasportiamo il nostro agile bagaglio nel solito cheap hotel. Questo è stato ricavato in un vecchia casa di stile inglese, propri di fronte al piccolo porto. Due piani, pavimento morbido di moquette, arredamento anni Cinquanta. Ci accoglie una signora gentilissima, che parla bene l’inglese e il francese. Carla può dare sfoggio della sua bravura. Io arranco qualche commento nel mio inglese approssimativo.
Usciamo a fare un giro sul grigio lungomare cementificato. C’inoltriamo per le strade regolari che si dipartono perpendicolarmente alla direttrice principale. Man mano che ci allontana dal centro, ai negozi scintillanti di abbigliamento si sostituiscono vetrine polverose e male illuminate che offrono merci poco attraenti. Ovunque si accumulano miseria e sporcizia.
Passiamo la serata seduti al bancone di una birreria alla moda. L’ambiente è saturo di fumo e di musica degli U2. Il barista-deejay si muove al ritmo di “Sunday bloody sunday” e fa roteare in aria i bicchieri, prima di riempirceli di Heineken ghiacciata. Ci prende in simpatia e ogni paio di boccali che svuotiamo, ci offre un drink o una tequila. Verso l’una trascino Carla fino alla pensione, sotto una pioggia battente che non abbiamo sentito cominciare.
GIORNO 5 ALEXANDROPOLI – TEKIRDAG – ISTANBUL (KM 300)
Al mattino sta ancora piovendo. C’incartiamo accuratamente nelle nostre tute antipioggia. Ci prepariamo ad affrontare gli ultimi chilometri che ci separano dalla Turchia. Si sente odore di confine, nei villaggi sempre più poveri che attraversiamo, nell’infittirsi di basi militari e camion verdi oliva.
La frontiera. Le operazioni burocratiche ci portano via un’oretta. Vaghiamo da una scrivania all’altra, compilando moduli, esibendo documenti a funzionari con la cravatta e la camicia a mezze maniche, pagando bolli. Alle dracme si sostituiscono le lire turche che, a causa di un’inflazione selvaggia, si contano a milioni. Finalmente varchiamo il confine. I colori, che erano il bianco e l’azzurro, diventano il rosso e il bianco. Soldati adolescenti con i mitra in spalla ci salutano sorridendo.
Penetriamo in Turchia lungo una statale disegnata senza troppa fantasia: riga e squadra a tracciare una retta che si perde nell’orizzonte, movimentata solo di tanto in tanto da qualche saliscendi. Sembra una di quelle solitarie autostrade che attraversano il deserto americano. Intorno una pianura gialla e sconfinata, cosparsa di rade case, distribuite senza un criterio visibile. Non ci sono neppure strade a collegarle. Non si vedono nei dintorni negozi o locali o luoghi d’aggregazione. Nessuna traccia della vita sociale dei suoi abitanti.
Man mano che ci avviciniamo a Istanbul le case diventano palazzi a più piani e tendono a concentrarsi in agglomerati di maggiori dimensioni, a costituire delle specie di quartieri-satellite dotati di un minimo d’infrastrutture. Incontriamo gruppi di giovani che camminano ai bordi della statale, spostandosi probabilmente da un’isola di cemento all’altra. Talvolta si lanciano in rischiosi attraversamenti. Molti indossano blazer blu, camicia bianca e cravatta, la tenuta degli allievi delle scuole medie e superiori.
La periferia di Istanbul inizia poco dopo, con largo anticipo sulle nostre previsioni. Mancheranno ancora almeno cinquanta di km al centro e già cominciano a correrci incontro enormi palazzoni di cemento armato senza balconi, punteggiati di minuscole finestre, tanto simili a quelli che deturpano le periferie di qualunque metropoli europea. L’unica differenza è che questi sono dipinti di celeste, lilla, arancione: colori vivaci scelti forse nel tentativo di stemperare la tristezza di queste case-alveare. L’effetto è grottesco.
Dalla statale scivoliamo nel complesso reticolo di tangenziali e raccordi che ingabbia la città. La navigazione si fa difficoltosa. Carla si da fare come può con la carta stradale, m’impartisce istruzioni sempre meno convinte. Il traffico intanto è diventato molto intenso. Veicoli d’ogni tipo ci sfrecciano accanto a velocità folle, sorpassandoci a destra e sinistra. Mi sembra di giocare una sorta di roulette russa, tra camion, furgoni, vecchie carcasse d’auto cariche di spoiler e accessori d’ogni tipo. A un certo punto finiamo su uno degli enormi ponti che scavalcano il Bosforo. Ci accorgiamo di essere andati troppo oltre quando leggiamo il cartello “Benvenuti in Asia”. Invertiamo la marcia, seguiamo ad intuito alcune indicazioni di località sconosciute e che non troviamo sulla carta. Basta un’assonanza, una vaga corrispondenza con nomi che abbiamo letto (o ci sembra di ricordare di aver letto) sulla guida, per convincerci a imboccare un’uscita. Ad alcuni bivi decidiamo la direzione orientandoci col Sole.
Dopo una buona mezzora ci sembra di aver raggiunto un livello un po’ più elevato in questo immenso videogioco. Il paesaggio che vediamo scorrerci intorno sembra un tantino meno periferico. Ci fermiamo a chiedere indicazioni. Lo facciamo in inglese, ma naturalmente i nostri interlocutori non capiscono una parola di questa lingua. Devono tuttavia riconoscere alcuni dei vocaboli con i quali infarciamo le nostre richieste, probabilmente qualcuno dei termini che designano i luoghi verso i quali siamo diretti: Sultanahmet, Topkapi… Allora tutti si lanciano regolarmente, con lodevole impegno ma scarsa chiarezza, in sproloqui lunghi e articolati, rigorosamente in turco, conditi da gesti d’ogni tipo: mani e braccia agitate in mille direzioni diverse disegnando nell’aria svolte, salite, sottopassaggi.
Chiusa questa parentesi comica – che ci ha visto anche finire per errore in un parcheggio di pullman e vagare per buoni dieci minuti al suo interno, prima di guadagnare l’uscita – riusciamo in qualche modo a raggiungere il centro. Ci fermiamo a un Tourist Information per farci consigliare una pensione. Ne scegliamo una nel cuore del Sultanahmet, “stanze linde con doccia, 35 $ la doppia”. C’infiliamo nuovamente nel flusso del traffico, seguendo le dettagliate indicazioni dell’impiegato. A un semaforo veniamo affiancati da un poliziotto, su una BMW da enduro dipinta di nero opaco, equipaggiata con sirena, radio e tutto il resto. Lui è senza casco, fasciato in una tuta blu, anfibi e mitraglietta a tracolla. Ci guarda con aria di sfida. Più da motociclista che da tutore dell’ordine. Scatta il verde e lui parte impennando. Incasso in silenzio.
La Star Pension corrisponde in pieno alla descrizione della guida. In più è in una stradina caratteristica e piena di vita, sulla quale si affacciano vecchie case con la facciata di legno e locali d’ogni tipo. Oggi ospita addirittura una sorta di mercatino rionale. Dopo una contrattazione breve ma incisiva fissiamo il prezzo: l’equivalente di 150 $ per cinque notti. Dopo si vedrà. Unica controindicazione: non hanno il garage. E la moto? No problem. Braccia forti afferrano il Giesse e lo depositano all’interno di una lavanderia. E’ dello stesso proprietario della pensione. La moto potrà restare qui per tutta la nostra permanenza, parcheggiata accanto all’asse da stiro dove si affanna una grassa signora.
Al tramonto ci sorprende per la prima volta la cantilena dei muezzin, che altoparlanti gracchianti diffondono in tutto il quartiere. La litania evoca in noi la suggestione di luoghi e abitudini e stili di vita dei quali finora avevamo solo letto o sentito parlare. Ci sentiamo davvero lontani da casa, immersi in una realtà tanto diversa e affascinante.
GIORNI 6,7,8,9,10: ISTANBUL
Istanbul è immensa e brulicante di persone e veicoli e attività. Tutto sembra eccessivo: enorme, colorato, profumato, veloce, confuso.
Visitiamo Santa Sofia e la Moschea Blu, ma anche le moschee minori di quartieri periferici. Ci facciamo affascinare dall’atmosfera che, invariabilmente, vi regna. Le troviamo rilassanti, luminose, colorate. Invitano alla pace, infondono serenità. Oltre che luoghi di culto sembrano veri punti d’aggregazione per la comunità. Sono così accoglienti che ti fanno venire voglia di restarci a chiacchierare amabilmente.
Passiamo alcuni pomeriggi vagando per gli sconfinati mercati che si estendono per interi quartieri, dove si affollano venditori di merci di ogni tipo, in una stridente commistione di artigianato e high tech. Ci lasciamo trascinare dal movimento di fondo che sembra percorrerne le direttrici in un moto perpetuo, dipartendosi in mille terminazioni secondarie, lungo tentacoli di vie piccole e piccolissime. A ogni angolo c’è un venditore di kebab. Già dal primo mattino il suo odore invade la città. A qualsiasi ora e in qualsiasi luogo è possibile vedere persone che azzannano i tipici panini imbottiti con quella carne speziata. Noi ne facciamo la base della nostra alimentazione, assaporandone con entusiasmo ogni variante.
Dal centro storico, nel quale si concentra gran parte di quello che c’è da vedere e che pullula, naturalmente, di turisti, allarghiamo il nostro raggio d’azione utilizzando ogni sorta di mezzo di trasporto: i tram traballanti, i romantici traghetti che fanno la spola da un versante all’altro del Bosforo, collegando la parte europea a quella asiatica, la breve linea metropolitana, i temibili taxi, ricavati da vecchie berline Fiat, accessoriatissimi e guidati in maniera folle da prepotenti autisti.
Durante una delle nostre peregrinazioni disordinate finiamo nel quartiere greco ortodosso. Ci perdiamo nel labirinto di viuzze tortuose, case coloratissime e diroccate, panni appesi alle finestre, frotte di bambini scalzi e sudici che ti chiedono qualcosa: soldi o una fotografia o un sorriso. Passiamo anche una serata nel quartiere di Beyoglu, il più elegante e modaiolo – e quindi meno caratteristico – popolato di locali di stile europeo, brulicante fino a notte inoltrata di gente d’ogni risma.
Abbiamo modo di cogliere i mille volti della miseria di questa città: nella folla che si assiepa per le strade; nei negozi vuoti e disadorni; nella gente che ti chiede soldi in cambio dei più disparati servizi; nell’insistenza commovente dei bambini lustrascarpe; negli sguardi impassibili dei vecchi cenciosi seduti di fronte a vecchie bilance: una pesata in cambio di una moneta; nei disoccupati che si offrono come facchini davanti ai camion da scaricare, con una strana intelaiatura di legno fissata alla schiena con cinghie di cuoio, in attesa di essere affardellati come asini; nelle numerosissime, minuscole sartorie a buon mercato; nelle botteghe che sembrano emerse dal nostro dopoguerra e che vendono bottoni o chiusure lampo o fibbie, o utensili; nelle auto vecchie di trent’anni; nei palazzi fatiscenti; nelle case di legno abbandonate; nelle miserabili baracche delle periferie; nell’assenza degli squilli dei telefonini; nello strano salvagente di un bambino che si immergeva nelle acque fetide del porto: tante bottiglie di plastica vuote legate insieme con una corda.
GIORNO 11: ISTANBUL – ANKARA – KAMAN – KIRSEHIR – NEVSEHIR (KM 750)
Ripartiamo da Istanbul con la sensazione di averne solo sfiorato l’essenza. Eppure, ripensando ai pochi giorni che c’abbiamo trascorso, ci rendiamo conto d’avere accumulato un’infinità di ricordi.
Forti dell’esperienza dell’andata, ripercorriamo con maggior sicurezza il groviglio delle tangenziali. Ci districhiamo a malincuore dal loro abbraccio metropolitano. Ci lasciamo alle spalle le sterminate periferie, il loro arcobaleno di alienazione.
Quattro ore d’autostrada senza storia. Il Giesse torna ad accarezzare i 180. Saliamo un po’. L’aria si fa frizzante. Scendiamo. Planiamo verso Ankara. La vediamo solo da lontano e ci appare grigia e senza vita, nascosta dalla nuvola di smog che la circonda, deposta come per scherzo in mezzo a un deserto stepposo.
Deviamo a Sud, verso la Cappadocia. Ancora duecentocinquanta km di una strada praticamente deserta, rivestita di un asfalto approssimativo (lo fanno così: uno strato di bitume appiccicoso, una gettata di breccia, una passata di schiacciasassi a compattare il tutto). Attraversiamo un paesaggio irreale, dune gialle di stoppie di grano a perdita d’occhio, a simulare il Sahara. Ogni tanto le oasi verdi di un orti fortemente voluti, intorno a case coloniche germogliate come funghi caparbi.
Si avvicina il tramonto e l’azzurro del cielo comincia a striarsi di rosa e di arancio. Su questo sfondo variegato si allarga il giallo oro della Luna piena. La sua luce piove sul brullo paesaggio che ci circonda fino a saturare l’atmosfera. Arriviamo a Nevsehir, nel cuore della Cappadocia, immersi nelle mille sfumature di un crepuscolo che proietta su di noi ombre lunghissime.
I colori e le luci sembrano rappresentare l’unica ricchezza di questo paese che, per il resto, ci appare piuttosto squallido. Rimediamo a prezzo ridicolo una stanza in un alberghetto di quart’ordine. La povertà si percepisce nell’esagerata cortesia del personale, nelle ridondanti manifestazioni di gratitudine nelle quali si sciolgono per una mancia pari all’equivalente di poche centinaia di lire. Non c’è acqua calda, naturalmente. Immobilizzo Carla sotto un getto di acqua gelida, incurante delle sue urla. Ci facciamo in due una doccia veloce e approssimativa, prima di uscire a cercare un posto dove mangiare qualcosa.
Sono appena le nove ma le strade sono già deserte. L’ultimo locale illuminato sulla strada principale ha la serranda mezza abbassata. I camerieri sono riuniti a un tavolo a banchettare con gli avanzi della giornata. Il padrone, seduto dietro la cassa, conta i soldi dell’incasso, mazzetti di banconote sdrucide dagli importi milionari. Ci affacciamo alla porta titubanti, temendo quasi di disturbare. Veniamo invece accolti con mille riguardi, accompagnati a un tavolo, sfamati con l’ennesimo kebab, che la fame e la stanchezza ci fanno sembrare davvero delizioso.
GIORNI 12,13,14: CAPPADOCIA
La mattina ci sorprende con il frastuono del traffico disordinato che intasa la strada del nostro albergo, composto da vecchie moto, furgoni scassati, carretti di venditori ambulanti, gruppi di studenti incravattati che vanno a scuola. Di tanto in tanto al rumore di fondo si unisce l’urlo del muezzin, gracidante a tutto volume dall’altoparlante della vicina moschea. Scendiamo nello stanzone che funge da ristorante, vuoto e miserabile, nel suo arredamento pomposo e fatiscente di velluti viola e logori. Ci riforniamo di energia con una generosa colazione alla turca: ricotta salata, uova sode, pomodori, cetrioli e il pane bianco e morbido che si trova da queste parti. Ci beviamo sopra diverse tazze di caffè solubile. Ci sentiamo riposati e carichi di aspettative per le giornate che passeremo in questa regione nuova e affascinante.
Recuperiamo il Giesse dal suo nuovo garage: questa volta è un piccolo ristorante, gestito da un amico dell’albergatore. Dentro ci sono un paio di clienti che fanno colazione, per nulla stupiti, accanto alla moto impolverata. Partiamo alla scoperta della Cappadocia, lungo strade strette e male asfaltate, che s’insinuano nelle pieghe di questo frastagliato deserto di pietra.
La Cappadocia è una distesa infinita di formazioni rocciose di un giallo-grigio che la luce del tramonto accende di rosa, dalla forma stravagante, modellata nel corso dei millenni dalla fantasia degli agenti atmosferici. Alcune delle pareti tufacee sono state scavate, in tempi preistorici, per ricavarne abitazioni fresche e difficilmente attaccabili, costituendo villaggi trogloditi che oggi emanano un fascino inquietante e misterioso. La regione è talmente ampia da riuscire ad assorbire con disinvoltura la massa di turisti, mantenendo un aspetto ameno e incontaminato.
Trascorriamo alcune giornate passeggiando lungo stretti sentieri che costeggiano un paesaggio monotono. Ci capita di passare ore intere senza incontrare nessuno.
L’unica presenza sono gli spettri degli antichi abitanti di queste grotte scavate nel tufo, i disegni e le iscrizioni che testimoniano il loro passaggio in questa landa infuocata. Il silenzio ossessivo ci assorda; perfino i rari rumori, il lento frusciare del vento ci giungono come attutiti. Reduci da caotiche giornate metropolitane ci sentiamo sbalzati su un altro pianeta, inospitale e ricco di suggestioni.
Combattiamo la vertigine inerpicandoci sui pinnacoli di antiche fortificazioni, il senso di claustrofobia percorrendo i cunicoli bui di sconfinate città sotterranee. Torniamo al nostro albergo-topaia la sera, esausti e impolverati.
Recuperando la moto dopo una di queste escursioni conosciamo un terzetto di ragazzi svedesi. Viaggiano su tre XT 600 nuove di zecca, equipaggiate con enormi motovaligie d’alluminio e serbatoi maggiorati. Ci scambiamo commenti sulla Turchia, sulle motociclette, sulle strade malconce che abbiamo percorso per giungere fin qui. Poi loro ci raccontano l’avventura stupenda che hanno progettato alcuni anni fa, che stanno realizzando da un paio di mesi. Espongono con naturalezza la semplice ricetta di questo sogno. Prendere un periodo d’aspettativa dal lavoro, prosciugare il conto in banca, comprare tre motociclette uguali e partire per un viaggio attraverso buona parte del Nord Europa e poi Turchia, Siria, Giordania, Israele, per concludere in Nord Africa (in Marocco, forse…). Tempo di percorrenza: un anno, per poter fare le cose con calma, senza dover rimpiangere, poi, di non essersi potuti trattenere un po’ più a lungo in una località particolarmente suggestiva. Incassiamo il colpo e ripartiamo pieni d’invidia, il nostro viaggio avventuroso, lungamente cullato nel nostro immaginario, improvvisamente ridimensionato a una scampagnata fuori porta.
GIORNO 15: NEVSHEIR – SULTANHANI – KONYA (KM 250)
Il tempo per noi scorre inesorabilmente. Il numero delle giornate di ferie residue si assottiglia. Ingoiamo la voglia di restare, raccogliamo le nostre cose e ripartiamo, sulle ali della voglia di continuare.
Puntiamo verso Konya. Attraversiamo l’altopiano dell’Anatolia lungo una superstrada rettilinea che ripercorre un’antica via carovaniera. In mezza giornata ci lasciamo alle spalle l’equivalente di settimane di trasferimento a dorso di cammello, d’asino, di cavallo, al seguito di lenti carri stracarichi di merci. Ci corrono incontro a velocità stratosferica le migliaia di pali di legno delle linee elettriche, che costeggiano la strada con costanza commovente, lungo centinaia di km di uniformità disarmante. Che andiamo forte se ne accorge anche l’assonnata polizia turca. Ci becca in flagrante la fleshata di un inatteso autovelox. Poco più avanti c’è il posto di blocco, dove riceviamo incomprensibili spiegazioni e veniamo alleggeriti di svariati milioni (solo sessantamila lire, al cambio, per fortuna).
A Sultanhani ci fermiamo a visitare il Caravanserraglio. La costruzione si erge sui suoi blocchi di pietra squadrata, come un miraggio nella polvere del circondario (tale doveva apparire agli stanchi mercanti delle carovane, per i quali rappresentava la tappa intermedia del viaggio interminabile verso Ankara). Attorno alle sua mura imponenti è sorto disordinatamente un miserabile villaggio di baracche e case fatiscenti e locali bui e spogli, affollatissimi di vecchi intabarrati che sorbiscono thè o caffè. I pigri avventori fissano me e Carla e la moto con aperta curiosità. Sembrano colpiti soprattutto da Carla, dalla sua tenuta da motociclista. E’ evidente come, mano a mano che ci si allontana dal cosmopolitismo metropolitano di Istanbul, da quello della Cappadocia, determinato dai flussi turistici, vada crescendo l’influenza dei costumi di vita islamici. Nei villaggi dell’entroterra che incontriamo si respira una maggiore intransigenza: le donne hanno sempre il capo coperto, i locali sono frequentati da soli uomini, è bandita dalle strade qualsiasi manifestazione troppo chiassosa o irriverente.
GIORNI 16,17: KONYA
A Konya si coglie più che altrove il contrasto tra i costumi occidentali e quelli tradizionali. Antico e moderno convivono in una commistione inestricabile di carri trainati da cavalli e automobili luccicanti. Passiamo un paio di giornate oziose, in giro per i negozi e i bazar. La sforzo maggiore sembra essere quello di respingere gli innumerevoli venditori di tappeti, che ci arpionano ogni pochi metri con i loro “where are you from”. E’ il prezzo che dobbiamo pagare per poter osservare da vicino lo spettacolo affascinante della realizzazione di queste opere. Donne impassibili con mani da bambine annodano con movimenti velocissimi i fili di diversi colori su una trama principale di sottili funi parallele, tese su un’intelaiatura di legno. Quello che non sembra altro che un groviglio sfilacciato poi viene compattato con una specie di pesante pettine metallico e rasato con una lama affilatissima. Lentamente, fila dopo fila, mese dopo mese, emergono dal nulla coloratissime decorazioni geometriche, disegni di stupefacente perfezione. E’ un lavoro di pazienza che ai nostri occhi appare assolutamente snervante come pure inconcepibile, per la pragmatica mentalità occidentale, è la quantità di tempo necessario per tessere un tappeto con questa tecnica.
GIORNO 18: KONIA – BEYSEHIR – ANTALYA – KEMER (KM 400)
Lasciando Konya il paesaggio cambia di nuovo. Per raggiungere la costa dobbiamo scavalcare l’imponente catena montuosa dei Tauri, svelando un nuovo aspetto di questa nazione dagli infiniti paesaggi. Saliamo di quota. Alle gialle pianure dell’Anatolia si sostituiscono gli speroni di roccia e i sassi di queste montagne inospitali. I villaggi si diradano. La strada si fa sempre più stretta e ripida intricandosi in un’infinità di tornanti. Le uniche presenze umane sono i venditori al bordo della strada che offrono ai rari passanti miele, frutta, bibite. Tocchiamo quota duemila e cinquecento. Il freddo si fa pungente. Poi inizia la discesa. Scivoliamo a valle per decine di chilometri. All’improvviso vediamo profilarsi all’orizzonte la striscia azzurra del mare.
Iniziamo la risalita della costa turchese in senso antiorario. Assorbiamo il cambiamento climatico e il nuovo profumo salmastro. Dopo alcuni giorni di clima continentale siamo ripiombati in un’estate torrida. D’ora in poi sarà già un po’ ritorno.
Raggiungiamo Antalya. Ne sfioriamo appena la periferia, così simile a quella delle altre città turche che abbiamo incontrato fin ora. Viaggiamo per il resto della giornata lungo una strada litoranea rettilinea e un po’ monotona, che guadagna movimento e panorami mano a mano che la costa si fa più frastagliata. Ci fermiamo a Kemer, località turistica consigliataci da un venditore di tappeti di Konya.
Kemer sembra un immenso villaggio Valtur per turisti europei di mezz’età. Passeggiamo per un largo viale porticato, affollato da tedeschi e polacchi in bermuda, costellato di fast food e negozi di abbigliamento italiano. Ovunque gambe bianche e flaccide, borselli a tracolla, vecchie grasse e ingioiellate a caccia di un’ultima conquista da fine stagione, venditori ambulanti insolitamente aggressivi. Restiamo a Kemer il tempo di cenare, di dormire qualche ora in una camera rimediata a poco prezzo presso una famiglia locale.
GIORNI 19, 20: KEMER – KAS – FETHIYE – OLUDENIZ (KM 250)
Ripartiamo di buon ora, accompagnati da un sole implacabile, lungo una strada splendida che ci offre una gamma infinita di paesaggi, a tratti arrampicandosi sulle montagne scoscese che sorgono quasi a picco sul mare, a tratti tornando a seguire da vicino una costa rocciosa, nella quale ogni tanto si aprono delle spiaggette candide.
Arriviamo a Kas, che ci innamora immediatamente col suo aspetto pittoresco e sbiadito di borgo di pescatori. Resteremmo volentieri qualche giorno in questo villaggio senza tempo, alla scoperta delle sue numerose spiagge di sabbia e di ciottoli fronteggiate da un mare verdazzurro, ma il tempo stringe e dopo un paio di giorni proseguiamo per la penultima tappa in terra turca.
GIORNI 20, 21: OLUDENIZ – FETHIYE – MUGLA – AYDIN – KUSADASI (KM 300)
Oludeniz si rivela una località più modaiola, posta ai margini di una splendida laguna di acqua trasparente, separata dal mare aperto da una sottile lingua di sabbia. Alle spalle della spiaggia si stagliano delle formazioni rocciose scure e coperte di vegetazione, le cui cime si perdono tra le nuvole a una quota che non deve essere inferiore ai duemila metri. Il contesto si presta incredibilmente bene alla pratica del parapendio, che ben presto scopriamo essere lo sport locale. Già nelle prime ore del mattino il cielo si popola di vele colorate. Io e Carla restiamo affascinati a fissare lo spettacolo. A gruppi di dieci o quindici i paracadutisti si lanciano dalle montagne a ridosso della spiaggia e, dopo aver volteggiato nell’aria per alcuni minuti, atterrano su un piazzale di cemento ricavato in uno slargo del lungomare. I più bravi riescono a far stallare il paracadute a pochi metri da terra e atterrano in piedi, con elegante disinvoltura, all’interno di un cerchio disegnato come bersaglio. Quando sgusciano fuori dalle tute scopriamo dalla carnagione e dagli accenti che si tratta di paracadutisti provenienti da ogni angolo d’Europa. Oloudeniz è una specie di ritrovo per appassionati di parapendio e non è difficile immaginare il motivo. Deve essere meraviglioso volteggiare sopra questa laguna verde smeraldo, dominando dall’alto un paesaggio incantevole, fatto di mare e di montagna.
Siamo ripartiti da Oloudenitz alla volta di Kusadasi, che dovevamo raggiungere in serata. Lì avremmo passato l’ultima notte in Turchia. La mattina dopo avremmo preso un traghetto per l’isola di Samos, già in territorio greco, dove ci attendeva la coincidenza con un secondo traghetto, che ci avrebbe portato a Atene.
A Kusadasi arriviamo invece a mezzanotte passata, dopo ore di valzer su e giù per la tortuosissima litoranea, che ci ha costretto a una media ridicola. Il nostro traghetto partirà alle sette del mattino. Pagare una camera per poche ore di sonno ci sembra un’inutile spreco. Decidiamo di fare nottata in giro per il paese. Partiamo senz’altro alla ricerca di qualche locale aperto.
Kusadasi sembra deserta e senza storia, anonima e assopita. Ne percorriamo le strette strade un po’ demoralizzati, con la moto carica di bagagli e le nostre schiene cariche di chilometri, gli occhi stanchi di cogliere paesaggi e indicazioni stradali, il culo che fa male, dopo tante ore di sella. Stiamo per rinunciare al nostro proposito quando cogliamo l’eco lontano ma inconfondibile della disco music sparata a tutto volume. Come topi incantati da un pifferaio, seguiamo la scia sonora pieni di speranza e di curiosità. C’inoltriamo in un labirinto di strade secondarie e vicoli sconnessi con le orecchie ben tese. Le vibrazioni dei bassi percorrono le mura scrostate di case fatiscenti, aumentando d’intensità mano a mano che ci avviciniamo alla loro fonte. Giungiamo in una zona meno periferica. Comincia a vedersi un po’ di gente per strada. Attraversiamo sotto lo sguardo severo di alcuni poliziotti quella che sembrerebbe essere un’area pedonale. Sbuchiamo in un largo viale sfavillante di luci e di rumori. All’improvviso ci sembra di essere finiti nel lungomare di Rimini nel pieno della stagione. Lungo la strada si allineano a perdita d’occhio una serie di disco bar affollatissimi. Dalle porte aperte fuoriescono decine di ritmi musicali che si mescolano in un frastuono di fondo. Ragazzi e ragazze turchi ed europei si accalcano davanti alle entrate, arginati da nerboruti buttafuori. Parcheggiamo la moto e ci buttiamo nella mischia.
Scegliamo un locale affollato. Ci facciamo largo nella cortina di musica e fumo e gente che balla, nell’odore intenso di sigarette e traspirazione. Guadagnamo il bancone e ordiniamo un paio di birre. Le buttiamo giù senza troppi complimenti. Sciacquiamo via un po’ di polvere del viaggio, l’arsura accumulata in tanti chilometri di strada sotto il sole impietoso di questa giornata lunghissima. Ordiniamo di nuovo da bere, senza badare a spese, per oggi: dobbiamo bruciare gli ultimi milioni di lire turche: inutile cambiarli un’altra volta, facendoci dissanguare dalle commissioni di cambio… Con questa scusa parte la terza birra, mentre l’alcool comincia a impastarsi con la stanchezza. Ci lasciamo trasportare dall’ebrezza leggera, dalle note distorte dell’heavy metal dozzinale che suonano in questo locale. Carla mi trascina in mezzo alla pista. La seguo, stralunato e legnoso e accaldato, nel giubbotto di cuoio da moto che non mi fido ad abbandonare da qualche parte. Ci mettiamo a ballare pure noi, sudando e sgomitando nel caldo umido e alcolico che ci avvolge.
La pista è affollata soprattutto di giovani turchi e di ragazze tedesche o inglesi, bionde e slavate e invariabilmente molto abbondanti. I giovani turchi le dardeggiano di occhiate cariche di desiderio. Io non perdo di vista Carla e mi gusto lo spettacolo.
Usciamo dal locale e imbocchiamo l’entrata immediatamente accanto. Veniamo accolti da sonorità pesanti di Acid House e dalla solita miscela di fumo e sudore. I milioni da spendere sono ancora diversi. Guadiamo il nuovo fiume di umanità scalmanata, approdiamo a un nuovo bancone. Ordiniamo un paio di drink.
La giostra prosegue fino alle quattro quando, come se fosse suonata la fine delle lezioni, la musica si spegne. Tutti i locali si svuotano contemporaneamente. La gente defluisce ordinatamente nella strada. I ragazzi spariscono rapidamente nei vicoli bui, a piedi, su moto scassate e motorini rumorosi. Le tedesche grasse, stropicciate e con le gote accese, imboccano a gruppetti di quattro o cinque la strada delle pensioni a buon mercato dove alloggiano. Le più fortunate s’imboscano con la conquista della sera.
Ci restano ancora un paio di ore alla partenza del traghetto. Le passiamo sonnecchiando su una panchina del porto, in attesa dell’apertura dell’ufficio doganale.
GIORNO 22: KUSADASI – (traghetto) – SAMOS
Alle 11 approdiamo a Samos, isola greca a pochi chilometri dalla costa turca. Qui dobbiamo prendere la coincidenza col secondo traghetto che, secondo le incerte informazioni che abbiamo raccolto in Turchia, dovrebbe partire nel pomeriggio. Passeggiamo nel porticciolo di case imbiancate a calce, sovrastato da brulle colline pietrose, sotto il Sole ardente di mezzoggiorno. Troviamo l’ufficio della compagnia di navigazione. Entriamo a fare i biglietti. Un’odiosa impiegata c’informa senza troppi complimenti che il primo traghetto per Atene partirà solo il giorno dopo.
La notizie ci sorprende. Facciamo rapidamente due conti e c’accorgiamo che non riusciremo a rientrare a Perugia per il lunedì successivo. Ci tocca avvertire in ufficio che tarderemo di un giorno. Quest’imprevisto ci restituisce crudelmente la dimensione della nostra scarsa libertà di movimento. In questi giorni abbiamo vissuto senza programmi predefiniti, guidati unicamente dall’ispirazione del momento e dalla nostra curiosità. Ora la catena dei doveri quotidiani ci serra di nuovo le caviglie. Abbiamo allungato il collo fino al limite del nostro campo d’azione: non possiamo fare altro che tornare indietro.
Chiamiamo in Italia e parliamo coi nostri rispettivi capi ufficio. Le loro voci ci giungono consuete, impastate del grigiore di un quotidiano che non amiamo. Ci restituiscono, moltiplicata per cento, l’insofferenza antica. Sentiamo che il viaggio è davvero finito. Ancora una notte in quest’isola, un paio di traghetti, un breve trasferimento e saremo di nuovo a Perugia. A casa.
GIORNI 23-24-25: SAMOS – ATENE – (traghetto) – PATRASSO – (traghetto) – ANCONA – PERUGIA (KM 400)
Di Daniele e Carla……